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Pubblicato da il 9 nov 2014

Presso il Castello della Rancia di Tolentino si è svolto il Festival del Saper Vivere… fino alla fine

Presso il Castello della Rancia di Tolentino si è svolto il Festival del Saper Vivere… fino alla fine

Il Direttore Artistico Ayres Marques Pinto ha spiegato come nella musica le due barrette verticali indichino la conclusione, mentre i due punti invitano il musicista a ritornare all’inizio: “Un panta rei che obbliga a riconsiderare i concetti di inizio e di fine”.

Ho accolto l’invito dal Dott. Mari, Direttore del Dipartimento di Salute mentale di Jesi, a partecipare al Simposio da lui organizzato “Mythos e Logos nel vissuto de lutto”, Domenica, 12 ottobre 2014 ore 10:00 – 17:00. Tra gli invitati era presente anche il collega Concetto Gullotta, psicoanalista junghiano di Roma.

Perché la psicologia, la psicoanalisi in particolare, può parlare della morte?
Con l’avvento della psicologia scientifica si era spezzato il rapporto millenario tra la considerazione della morte e lo studio della psiche intesa come anima. La psicologia, diventando scienza di un incerto territorio di funzioni come la percezione , il pensiero, l’intelligenza, funzioni tuttora difficilmente collocabili nella fisiologia, lasciò cadere il suo interesse nei confronti della morte. Ripudiando l’anima in quanto nozione metafisica, la psicologia ripudiò anche la morte, benchè questa abbia una realtà assolutamente empirica.
Parlare della morte non è scientifico, è più scientifico medicalizzarla, parlarne compete ad altri campi.
Il discorso sulla morte troverà così altre dimore, oltre che nella teologia e nella filosofia, nella sociologia, nell’antropologia. Tutte queste branche contribuiscono allo studio della morte ma inevitabilmente devono assumere la morte nell’ambito del collettivo e dell’impersonale, si parla per capirci della morte, non della mia o della tua morte.
Agli inizi del ‘900 con la nascita della psicoanalisi e l’annessione del territorio dell’inconscio come regno vastissimo delle immagini, l’immagine della morte non potrà più essere esiliata. Scrive Trevi “L’inconscio ospita la morte come un cittadino ineliminabile, e la psicologia, pur pretendendo di rimanere scientifica, deve ricominciare a fare i conti con questo cittadino.”.
L’operazione di annessione sarà fatta da Freud nel 1920, il quale con “Al di là del principio di piacere” riconosce alla morte la sua cittadinanza: all’interno della teoria delle pulsioni quella di morte compare insieme a quella di vita. Anche Jung si occuperà della morte e in particolare dell’atteggiamento della coscienza: l’atteggiamento che la coscienza assume nei riguardi del proprio mondo interiore e della propria vita privata, lo assume anche verso l’inconscio e le sue immagini interne, compresa ovviamente l’immagine della morte.. In Anima e Morte egli considera la vita e la morte dal punto di vista finalistico, in cui la morte appare come “un fine”, non come la fine. Jung sosteneva che soltanto attraverso un pensare la morte come possibilità, come scopo, l’uomo scopre di certo la propria finitezza e vulnerabilità, ma anche il senso della propria esistenza: “vive veramente soltanto ciò che muore”.
Nei casi in cui ci si trova ad accompagnare qualcuno nel suo ultimo viaggio, poichè nella stanza di terapia si è in due, non si può prescindere dall’atteggiamento personale dell’analista verso le immagini interne della morte: egli dovrà contattarle dentro di sé, sia per avvicinarsi empaticamente all’altro, sia per riconoscerle e quindi non interferire in quel particolare processo di separazione in atto, che potremmo definire il lutto per la perdita della propria presenza nel mondo.
Mentre nel lutto per una persona cara vi è la perdita di un tutto di cui l’altro era l’altra metà, per chi si avvicina alla propria fine c’è la perdita di tutto, di sé, la propria scomparsa, perché l’Io-coscienza non ha la possibilità di rappresentarsi come soggetto dopo la morte. …ed è da questo che ci si difende, dall’eclisse di sé, dal proprio dissolvimento.

Nel testo risposta a Giobbe di Jung, Giobbe riceve una risposta drammatica ma l’unica possibile: non puoi sapere perché a te è stato destinato questo; gli eventi dolorosi, le sciagure, non si possono scegliere, ci colpiscono, senza alcuna ragione che il nostro intelletto possa comprendere e ci fanno arretrare in una condizione di dipendenza, senza più controllo sulla nostra vita e su chi siamo. E’ il punto in cui bisognerà sostenere se stessi , pena la follia, e fondare il proprio comportamento sulla propria etica , fare appello alla propria esistenza.

Sarà fondamentale, come sostiene la medicina narrativa, il racconto, il ricordo della propria esistenza: ”Non si narra la routine ma il cambiamento, che spesso divide l’esistenza in un prima e in un dopo” ( S.Spinsanti, Coordinatore scientifico) .

Sentimenti di solitudine, di rabbia, sensazioni fisiche di dolore e di impotenza, si alternano a ricordi, affetti, condivisioni. La rivisitazione attraverso la narrazione, come accade in analisi, alla ricerca di un senso, di un significato personale, intimo e profondo, necessita, io credo, di essere condiviso da un ascolto.